Conflitto tra genitori e figli adolescenti

Conflitto tra genitori e figli adolescenti

c’è una meta
per il vento dell’inverno:
il rumore del mare

Ikenishi Gonsui

L’adolescenza è un periodo di trasformazione caratterizzato da numerose attivazioni emotive, cambiamenti nel corpo e nella struttura del cervello.

Conflitto sì, certo. Il conflitto con l’adolescente è un momento creativo, un‘opportunità di dare un senso alle numerose attivazioni emotive che si manifestano nell’attraversare questo periodo della vita.

Il bambino come di fronte a uno specchio si identifica completamente con i genitori, si riconosce in essi, li imita e imita il loro modo di stare nel mondo, li prende come modello del proprio poter essere, li idealizza vedendoli senza difetti e li ama in modo assoluto, in adolescenza si rompe lo specchio, e l’adolescente si trova di fronte ai genitori e li vede con i loro limiti e difetti, come esseri umani imperfetti, come siamo tutti noi.

L’adolescenza è la fase di disidentificazione e separazione dai genitori e il conflitto può e deve esserci. In adolescenza inizia il periodo dell’individuazione in cui il bambino da essere sociale diventa individuo. Un processo di individuazione che avrà come esito la costruzione di una personalità autonoma che consentirà alla persona di stare nel mondo senza soffrire troppo, se le cose vanno abbastanza bene. Perché il processo si compia il ragazzo deve attraversare un territorio mentale in cui possono esserci numerose attivazioni emotive, delusione riguardo alle figure genitoriali prima idealizzate, senso di solitudine, tristezza, paura, ansia, rabbia, senso di inadeguatezza, invidia nel confrontarsi con l’altro, gioia di esplorare, piacere per l’indipendenza acquisita.

Sempre di questo periodo è la sessualizzazione con i suoi cambiamenti nel corpo. Il piacere si differenzia dal piacersi, il corpo diventa oggetto di sguardi, c’è paura, ansia, vergogna, invidia, desiderio, gioia. Si scoprono imperfezioni e si fanno confronti, nascono le prime relazioni romantiche, il corpo quindi si mette in relazione e le emozioni sono numerose e diverse. Rabbia e tristezza per i propri limiti, gioia per i propri pregi, invidia per il confronto con altri, vergogna per parti di sé non accettate.

Poi c’è l’incontro più ravvicinato con i coetanei, le relazioni diventano centrali per il ragazzo che inizia a definirsi attraverso le sue appartenenze ai gruppi di coetanei e le norme che le attraversano. Norme che prescrivono come vestirsi, come parlare, come relazionarsi ai social e ai media, quali libri leggere, chi avere come modello di riferimento. Norme che possono essere in contrasto con quelle familiari. Il desiderio di appartenere a un gruppo e le amicizie duali sono importanti per le sue nuove identificazioni e attivano emozioni contrastanti, paura e ansia di essere esclusi o rifiutati, gioia e piacere di appartenere, discrepanze per la presenza di valori e modalità relazionali diverse da quelle trasmesse dalla famiglia, rabbia e tristezza per l’esclusione.

Queste tre aree suscitano un tumulto di emozioni che vengono vissute in modo diverso da individui diversi in funzione della storia familiare.

 

E come affronta l’adolescente questo tumulto emotivo?

L’adolescente può affrontarlo con gli strumenti che ha acquisito nel corso dello sviluppo.

Le conoscenze relazionali, cioè il modo di stare in relazione e le aspettative ad essa connesse e la modalità di stare nelle emozioni, modularle e darvi un senso vengono trasmesse inconsapevolmente da una generazione all’altra e sono conoscenze esperienziali sul come fare, proprie della memoria procedurale che nessuno di noi è in grado di esprimere pienamente a parole. Queste conoscenze non vengono trasmesse in modo consapevole attraverso la comunicazione verbale ma attraverso l’esperienza relazionale. Sono conoscenze relative al saper fare come guidare, sciare, andare in bicicletta, posso leggere un libro su come si scia ma ha ben poca utilità, per imparare devo sciare, serve l’esperienza.

La capacità o meno dell’adolescente di stare in queste molteplici attivazioni emotive, talora contrastanti, dipende dalla sua storia di sviluppo dagli strumenti che ha acquisito a partire dalla nascita nella relazione con i genitori e con altri adulti significativi. Se il ragazzo è stato esposto a una relazione in cui l’altro si sintonizzava emotivamente, aiutava a nominare le attivazioni emotive senza sostituirsi al bambino, aiutava a dare un senso a queste emozioni e le legittimava come normali attivazioni degli esseri umani, allora l’adolescente forse riuscirà a modulare le sue attivazioni emotive e darvi un senso.

 

E cosa succede di queste emozioni?

Possono disorganizzare cioè mettere la persona nella condizione di non sapere che cosa fare, fino al punto di chiudersi in camera e non voler più uscire, oppure possono scaturire in azioni e comportamenti impulsivi, come l’uso di sostanze, il sesso non protetto, l’automutilazione, i disturbi alimentari o possono essere modulate dalla riflessione in un contesto familiare con diversi gradi di conflittualità più o meno funzionale alla separazione e individuazione.

Se l’adolescente nell’infanzia ha vissuto in una famiglia con buone capacità nel gestire le emozioni allora sarà in grado di orientarsi nel tumulto delle attivazioni, altrimenti è molto probabile che metta in atto comportamenti disfunzionali in opposizione alle norme familiari e a volte sociali, fino al mancato rispetto della legge.

E i genitori?

L’attraversamento di questo periodo avviene comunque proprio grazie al conflitto interno ed esterno, nelle discussioni con i genitori, nel confronto con gli altri.

Quando le norme sociali del gruppo di appartenenza collidono con le norme familiari, per i genitori si manifesta l’opportunità di mettere in atto una modalità di comunicazione che offra all’adolescente la possibilità di riflettere su quello che fa, pensa e sente.

Un rischio è quando il genitore per evitare il conflitto cede costantemente sulle norme e non permette al figlio di separarsi, cancella i confini relazionali nel tentativo di mantenere la vicinanza e non consente al figlio di sperimentare esperienze fondamentali come la solitudine e il senso di responsabilità per le proprie scelte.

Del resto se il conflitto si limita a grida e porte sbattute, cosa che ovviamente può accadere, ma mi riferisco a situazioni in cui la comunicazione è solo in questi termini, anche qui il messaggio che passa è un messaggio vuoto di senso, che non aiuta a crescere e individuarsi ma alimenta ulteriore oppositività e tensione nella relazione familiare, in cui l’adulto pur mantenendo la sua posizione sulla norma, rischia di perdere il proprio ruolo di punto di riferimento in caso di necessità.

L’altro rischio, oltre all’annullamento dei confini e all’impulsività è quello di una comunicazione fredda del genitore che non tenga conto delle proprie attivazioni emotive, in questo senso è come se adolescente e adulto parlassero due lingue diverse in cui è difficile la reciproca comprensione.

Come aiutarli allora?

I genitori possono ascoltare, fare domande, spiegarsi, cioè esplicitare la parte emotiva che li spinge a proporre una norma e consentire al figlio di riflettere sul senso delle norme.

Possono confrontarsi mantenendo la posizione genitoriale che è quella comunque di essere un punto di riferimento preferenziale per il ragazzo con una funzione di controllo e supervisione.

C’è una frase che parla di madri ma che mi pare in questo contesto adatta a entrambi i genitori che dice: “Una brava madre non è una che non sbaglia mai, ma una che sa riparare.”

Quando può essere utile l’intervento di uno psicologo?

In alcuni casi può essere d’aiuto un percorso psicoterapeutico del genitore che consente di comprendere le esigenze di un figlio adolescente e di diventare maggiormente consapevoli del proprio modo di gestire la relazione, i conflitti, le attivazioni emotive suscitate e il proprio stile di padroneggiamento delle situazioni.

dr. Marina Ugolini

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