
Tratto dall'e-book gratuito Navigare l'invisibile - Emozioni e autoregolazione
Tra carne, senso e storia: l’emozione come tessuto vivo dell’identità
Sentire è un verbo imperfetto
Le emozioni non bussano. Entrano.
A volte fanno rumore, altre volte no.
Ci attraversano come correnti sotterranee, modificando il paesaggio interiore senza chiedere il permesso.
Possiamo ignorarle, combatterle, tentare di addomesticarle. Ma loro restano.
Non per ostacolarci, ma per parlarci.
Le emozioni non sono semplicemente esperienze interne che “accadono”: sono atti di significazione profonda, bruciature silenziose sulla pelle della coscienza, tracce viscerali che ci orientano, ci disturbano, ci guidano o ci confondono. Sono memoria e anticipazione, eco e profezia. Nell’incontro con l’altro, e ancor prima nel dialogo con sé, esse tracciano il perimetro incerto del nostro esistere: ci mostrano, a volte con violenza, che siamo vivi.
L’emozione è, per natura, un evento relazionale. È risposta, reazione, costruzione, interpretazione. Nell’ottica costruttivista, che orienta questo libro, sentire non è mai un atto isolato o oggettivo, ma una traiettoria nella storia del Sé, un prodotto raffinato di significati personali costruiti nel tempo e nello spazio intersoggettivo. Come ci insegnano Guidano e Liotti, le emozioni non sono semplicemente stimoli da regolare, ma configurazioni affettive che definiscono il nostro modo di essere al mondo. Bion, dal canto suo, ci ricorda che per sentire davvero è necessario che qualcuno – dentro o fuori di noi – possa pensare l’emozione, contenerla, trasformarla da elemento beta in pensiero vivo.
E allora, questo libro non nasce per “spiegare” le emozioni, ma per esplorarle come si esplora una terra sconosciuta: con rispetto, con ironia, con cautela, ma anche con una certa dose di ostinata meraviglia.
Parleremo di emozioni primarie, quelle che sembrano attraversarci senza permesso: rabbia, paura, tristezza, sorpresa, disgusto, gioia. E poi di quelle secondarie, più complesse, più viscose, più legate alla nostra storia relazionale: colpa, vergogna, invidia, amore, gelosia. Non cercheremo di giudicarle, né di domarle, ma di comprenderle: nella loro funzione, nel loro impatto, nella loro potenza trasformativa.
Infine ci sposteremo verso la questione centrale: cosa succede quando si sente “troppo”, o quando non si sente affatto? Come si impara – se mai si impara – a contenere senza soffocare, a sentire senza annegare? Affronteremo i temi della coregolazione e dell’autoregolazione: due danze complesse tra dipendenza e autonomia, tra bisogno e libertà, tra ferita e cura.
Scrivere di emozioni è, in fondo, scrivere di umanità. E accettare la nostra vulnerabilità emotiva non è un atto di resa, ma un gesto rivoluzionario.
Perché, in un mondo che ci chiede di funzionare, scegliere di sentire è un atto sovversivo.
E imparare a farlo con consapevolezza è forse il compito più gentile e più urgente del nostro tempo.
Il viaggio che ci accingiamo a compiere parte da un presupposto semplice e radicale: le emozioni non sono accessori della vita, né errori da correggere, né disturbi da eliminare. Sono la sostanza viva dell’esperienza umana, la materia prima con cui costruiamo il nostro mondo interno e tessiamo le relazioni con gli altri.
Spesso, però, ci accade di viverle come se fossero invasori indesiderati. Vogliamo contenerle, gestirle, spesso reprimere ciò che sentiamo, come se il sentire fosse un ostacolo alla ragione, o una debolezza da nascondere. Questa visione ha radici profonde nella nostra cultura, che ha separato la mente dal corpo, il pensiero dall’emozione, l’essere dall’apparire.
In questo primo capitolo, proveremo a cambiare prospettiva. Non ci limiteremo a descrivere le emozioni come fenomeni isolati, né le considereremo solo come risposte automatiche a stimoli esterni. Le esploreremo come processi complessi, intrecciati con la nostra storia, il nostro senso di identità, e la trama delle nostre relazioni.
Seguiremo le tracce tracciate dalla psicoterapia cognitivo costruttivista, che vede le emozioni come costrutti dinamici e narrativi, e integreremo la visione di Wilfred Bion, che ci insegna l’importanza di pensare le emozioni per poterle abitare senza esserne sopraffatti. Scopriremo come ogni emozione – dalla rabbia alla gioia, dalla paura alla vergogna porti con sé un messaggio, un invito a capire qualcosa di più profondo su di noi e sul mondo che ci circonda.
Questo capitolo è quindi un invito: a riappropriarci del nostro sentire, a riconoscere il valore delle emozioni anche quando ci mettono in difficoltà, a imparare a dialogare con loro anziché combatterle. Non per diventare schiavi delle emozioni, ma per trasformarle in alleate di una vita più autentica e consapevole.
Benvenuti in questo primo passo dentro il cuore pulsante dell’esperienza umana.
1.1 – L’emozione non è un fastidio
Riabilitazione concettuale di ciò che sentiamo
Viviamo in un tempo in cui il sentire viene spesso percepito come un errore di sistema, una falla nel funzionamento. L’emozione, in questa cornice culturale, è trattata come un rumore di fondo da silenziare, una distrazione dal pensiero, un inciampo nel percorso di efficienza. Emozionarsi troppo è sinonimo di instabilità, non sentire è invece segno di controllo. La parola "controllo" è diventata desiderabile, quasi etica; la parola "emozione", invece, qualcosa da tenere sotto traccia, a bassa intensità.
Ma l’emozione non è un fastidio: è la radice sensibile della coscienza. È ciò che consente al pensiero di non essere disincarnato, alla memoria di non essere solo archivio, alla relazione di non essere pura funzione. L’emozione ci informa, ci orienta, ci allerta. È il primo modo in cui l’essere umano sente di esistere, ancor prima di sapersi esistente.
Ogni emozione, anche la più disturbante, ha una funzione e un senso. La rabbia protegge i confini, la paura segnala il pericolo, la tristezza rende visibile la perdita. La vergogna chiede appartenenza, l’invidia denuncia una mancanza, la gelosia svela il valore del legame. Anche la gioia – spesso marginalizzata come emozione “positiva” ma poco seria – è una forma radicale di contatto con la vita. In ogni emozione si iscrive un movimento tra dentro e fuori, tra sé e l’altro, tra passato e presente.
Non possiamo ridurre il sentire a un evento neurofisiologico, né a un puro dato comportamentale. L’emozione è un fenomeno complesso, multidimensionale, che attraversa il corpo, la mente e la memoria. È biologica e simbolica, automatica e costruita, necessaria e ambigua. È linguaggio prima del linguaggio, forma implicita di sapere incarnato.
Riabilitare l’emozione significa allora compiere un gesto politico, etico ed epistemologico. Vuol dire restituire valore a una parte dell’esperienza umana che per troppo tempo è stata relegata ai margini. Vuol dire smettere di considerare il sentire come un ostacolo al funzionamento, e iniziare a riconoscerlo come condizione essenziale per abitare pienamente l’esperienza.
Sentire non è un errore: è la forma più autentica del nostro essere al mondo.
1.2 – Non esistono emozioni “pure”: ogni sentire è una storia
Lo sguardo costruttivista sulla vita emotiva
L’idea che un’emozione possa essere “pura”, cioè separata dal pensiero, dalla memoria, dalla relazione, è una comoda illusione concettuale. Utile, forse, nei laboratori e nei manuali, ma radicalmente insufficiente nella vita reale, dove nessun sentire accade mai nel vuoto. Non esistono emozioni neutre, universali, trasparenti: esistono emozioni incarnate in storie, modellate da significati, colorate da esperienze che si sedimentano nel tempo.
Il costruttivismo psicologico – in particolare la prospettiva di Vittorio Guidano – ci offre una mappa per comprendere l’intreccio sottile tra emozione e identità. Le emozioni non sono semplicemente reazioni automatiche a stimoli esterni: sono parte di una configurazione di significati personali, co-costruiti nel tempo e legati a specifici modelli interni del Sé e dell’altro. In altre parole, ciò che sentiamo dipende profondamente da chi siamo, da come ci siamo sentiti, da come siamo stati sentiti.
La paura di un bambino che è stato rassicurato e quella di un bambino lasciato solo non sono la stessa emozione, anche se condividono la stessa etichetta. L’una può essere un segnale temporaneo, l’altra un’allerta esistenziale. Il dolore per una perdita, in una persona che ha sperimentato legami sicuri, avrà un sapore diverso rispetto a chi, nella perdita, rivive antiche rotture mai riparate. Non è solo una questione di intensità, ma di struttura del significato affettivo.
Nel modello di Guidano, le emozioni primarie si inseriscono in un sistema narrativo coerente che ogni individuo costruisce per dare senso alla propria esperienza. Non sono quindi mai “naturali” nel senso ingenuo del termine, ma trasformate dal contesto, dalla memoria implicita, dalla storia affettiva. Le emozioni non ci capitano: ci rappresentano.
Giovanni Liotti ci ricorda inoltre che il sentire è sempre intrecciato a modelli di attaccamento e motivazioni interpersonali: le emozioni nascono nel legame e si modulano in relazione. L’invidia, ad esempio, non è solo un segnale di mancanza, ma il riflesso di una rappresentazione interna in cui l’altro ha accesso a qualcosa che a me è negato. La vergogna non è solo una sensazione sgradevole: è il segno che il nostro Sé, così com’è, rischia di non essere accolto.
Quando diciamo che ogni emozione è una storia, non stiamo poetizzando il vissuto: stiamo riconoscendo che sentire è un atto cognitivo, affettivo e narrativo allo stesso tempo. Un’emozione, per essere capita, deve essere ascoltata nella sua genealogia, non solo osservata nel suo comportamento.
In questa prospettiva, il lavoro terapeutico diventa anche un lavoro di traduzione: dal sintomo al significato, dal sentire grezzo alla comprensione profonda. Perché, spesso, dietro un’emozione che “non si capisce” c’è una storia che non è mai stata raccontata.
1.3 – L’emozione ha bisogno di un pensiero che la pensi
Bion e la funzione alfa: dal caos al significato
C’è un tempo, in ognuno di noi, in cui sentire è un’esperienza muta. Le emozioni esistono già, ma non hanno ancora un nome, non hanno confini, non conoscono direzione. Sono sensazioni grezze, masse informe di vissuto che agitano il corpo, sfiorano la mente e chiedono, disperatamente, di essere accolte. In quel tempo primordiale – che non appartiene solo all’infanzia, ma che ritorna ogni volta che un’emozione ci travolge – il sentire è un linguaggio senza grammatica, un grido senza destinatario.
Wilfred Bion chiamava queste esperienze "elementi beta": contenuti psichici non pensati, non metabolizzati, che non possono essere usati per costruire pensiero. Sono frammenti di emozione che non entrano nella mente, ma restano nel corpo, o peggio, si trasformano in agiti, sintomi, silenzi. Perché un’emozione possa diventare pensabile – e quindi trasformativa – ha bisogno di una funzione: la funzione alfa.
La funzione alfa è, per Bion, la capacità di trasformare l’esperienza emotiva grezza in contenuto mentale digeribile. Ma questa funzione non è innata. Si apprende nella relazione, si sviluppa nel contatto con un altro essere umano capace di contenere, elaborare, restituire senso. È il volto materno che accoglie la paura senza esserne travolto, che prende l’angoscia e la trasforma in tenerezza, in linguaggio, in gesto. È il terapeuta che offre uno spazio pensante dove prima c’era solo confusione. È la mente dell’altro che aiuta la nostra mente a diventare capace di sentire senza spezzarsi.
Senza un contenitore – umano prima che concettuale – l’emozione rischia di esplodere o implodere. Troppo intensa, troppo confusa, troppo dolorosa per essere integrata, essa può diventare un’esperienza aliena. In questi casi, si attivano meccanismi di difesa primitivi: la scissione, il diniego, la dissociazione. Il soggetto non sente di non sentire, ma vive nel corpo le conseguenze di ciò che non può pensare.
Pensare un’emozione, allora, non è semplicemente analizzarla. Non si tratta di spiegarla, ma di contenerla, ascoltarla, restare con essa senza fuggire. Pensare significa dare forma, e la forma rende l’esperienza condivisibile. Un’emozione pensata può essere raccontata. Un’emozione raccontabile può essere vissuta senza distruggere.
Il processo terapeutico, in questa luce, è un atto poetico prima che tecnico: una co-creazione di significato. È lì che l’emozione trova la sua casa: non più forza cieca, ma energia vitale che può essere nominata, attraversata, trasformata. E così – lentamente, faticosamente – il caos si fa narrazione, e il sentire diventa comprensibile.
1.4 – L’emozione come regolatore del mondo interno e del legame
Funzioni adattive, comunicative e identitarie dell’affetto
Le emozioni non sono soltanto risposte. Non sono reazioni passive a un mondo che ci stimola, ci minaccia o ci invita. Le emozioni sono, prima di tutto, regolatori: sistemi interni che ci orientano nel mondo, ci dicono chi siamo, cosa conta per noi, e con chi stiamo condividendo il nostro sentire.
Ogni emozione ha una funzione, non solo biologica, ma narrativa. Se la mente è un racconto che ci tiene insieme nel tempo, le emozioni sono le sue sottolineature: ci indicano i passaggi cruciali, marcano le svolte, rendono visibili i nodi irrisolti. Esse definiscono la qualità dell’esperienza, assegnano valore, danno contesto. Non siamo solo esseri che “vivono” eventi: siamo esseri che li sentono – e il modo in cui li sentiamo dà forma alla nostra identità.
Dal punto di vista evolutivo, le emozioni servono a sopravvivere: ci fanno fuggire dal pericolo, cercare conforto, difendere i confini. Ma nella specie umana – dove il legame conta quanto il cibo e la protezione – le emozioni diventano anche strumenti di connessione. Un neonato non può dire “ho paura”, ma il suo pianto comunica perfettamente il bisogno di vicinanza. La vergogna non è solo disagio, è segnale di allarme relazionale: qualcosa si è incrinato nel legame, e il soggetto chiede – senza parole – di essere riammesso nel campo dell’appartenenza.
Ogni emozione è, in questo senso, bidirezionale: ci informa su ciò che accade dentro di noi, e al contempo cerca un interlocutore. Non basta sentirla: dobbiamo essere sentiti mentre la proviamo. Un’emozione senza sguardo rischia di spegnersi o di deflagrare. La funzione regolativa dell’emozione, infatti, si compie pienamente solo nella relazione. È l’altro – il volto, la voce, la presenza – che ci aiuta a modulare, a nominare, a regolare ciò che sentiamo. Da piccoli, ma anche da adulti.
Liotti ha descritto magistralmente come le emozioni siano intrinsecamente legate ai sistemi motivazionali interpersonali: il bisogno di attaccamento, la cooperazione, la competizione, la ricerca di accudimento. Non esiste un’emozione “neutra” che non implichi un altro. Persino la gioia più solitaria è, spesso, il riflesso di un riconoscimento atteso. E persino la rabbia più solitaria nasce da un’incomprensione, da un confine violato, da un bisogno frustrato.
Se comprendiamo che le emozioni regolano il nostro mondo interno e, allo stesso tempo, costruiscono il nostro paesaggio relazionale, allora possiamo smettere di vederle come contenuti da analizzare o correggere, e iniziare a trattarle come strumenti di orientamento. Come una bussola emotiva che ci guida – imperfetta, certo, ma indispensabile – nel labirinto dell’esperienza umana.
E in fondo, è attraverso le emozioni che diventiamo persone. Non perché le emozioni ci definiscano, ma perché esse ci mettono in movimento, ci costringono a interrogarci, ci chiamano a scegliere. Sono le onde su cui la coscienza naviga. E se sappiamo ascoltarle, possono condurci verso noi stessi.
1.5 – La materia viva del sentire: né razionale né irrazionale
Un invito a una nuova alfabetizzazione emotiva
Le emozioni vivono in una terra di confine, sospese tra il pensiero e il corpo, tra il mondo interiore e quello esterno, tra il noto e l’ignoto. Non sono né razionali, nel senso stretto e cartesiano del termine, né semplicemente irrazionali, caotiche o istintive. Sono, piuttosto, materia viva del sentire: un tessuto connettivo che unisce sapere e sensazione, conoscenza e movimento.
Per troppo tempo, la cultura occidentale ha tentato di relegare le emozioni in una dimensione inferiore, giudicandole irrazionali, impulsive, soggette a controllo o soppressione. La mente – intesa come razionale – veniva idealizzata come il faro della verità, mentre l’emozione veniva stigmatizzata come fonte di errore e di disturbo. Questa dicotomia ha creato un terreno arido, dove il sentire veniva negato o sottovalutato.
Oggi, grazie agli sviluppi della psicologia, della neuroscienza e della filosofia, sappiamo che le emozioni sono un modo di conoscere. Un modo che non si basa sulla deduzione logica, ma su una sintesi complessa di segnali interni, percezioni e memorie che ci raccontano chi siamo e cosa stiamo vivendo. Sono intelligenze del corpo e della mente, antenne che captano il senso nascosto delle cose.
Questa consapevolezza ci invita a un’alfabetizzazione emotiva: non una mera capacità di riconoscere e nominare i sentimenti, ma un’educazione profonda al loro ascolto e alla loro accoglienza. Significa imparare a stare con ciò che sentiamo, senza giudizio, senza fuga. Significa imparare a leggere le emozioni come messaggi, non come nemici.
Questa nuova alfabetizzazione richiede tempo e pazienza, perché sfida anni di apprendimento culturale che ci ha insegnato a scindere mente e corpo, ragione e sentimento. È un percorso che conduce a una integrazione: a una mente capace di pensare l’emozione, e a un cuore capace di non essere sopraffatto dal pensiero.
In questo spazio di integrazione, l’emozione si mostra nella sua doppia natura: vulnerabile e potente, caotica e ordinata, fugace e permanente. Non più ostacolo o errore, ma porta aperta verso il contatto autentico con noi stessi e con gli altri.
E così il sentire diventa uno spazio da abitare, un confine da attraversare con coraggio e gentilezza. Non per dominarlo, ma per lasciarsi attraversare.
dr Marina Ugolini
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